Continua il mio percorso nel fantastico mondo del giapponese.
Per martedì devo imparare gli ultimi 16 hiragana. Poi verrà il turno dei katakana, che servono per leggere le parole di origine non giapponese. Poi forse verrà anche quello dei kanji, gli ideogrammi di origine cinese.
Sto quindi imparando a leggere, ed è come rivivere un'esperienza ancestrale di cui non ricordavo i sentimenti, visto che fa parte della prima epoca della mia vita. Non ricordavo ad esempio l'immensa soddisfazione che si prova nel leggere correttamente una frase intera. Sarebbe bello anche capire sempre cosa leggo, ma non voglio pretendere troppo da me stessa.

Intanto il mio dirimpettaio sta litigando di nuovo con la sua fidanzata. Urla come un disperato cose come "non ce la faccio più - ma che ho fatto di male" e quando lo incontro in ascensore la mattina mi vengono in mente ste parole e mi fa strano sentirmi rispondere "tutto bene, e tu?".
Comunque non riesco a studiare giapponese con sto casino, in questi casi beata Candida, vicina novantenne, che è sorda come una campana.

Ieri ho fatto shopping produttivo.
Era da giorni che avevo il prurito al bancomat ma non riuscivo a comprare niente di soddisfacente. Finalmente mi sono lasciata andare. E con la mia (ancora per poco) compagna d'isola, ci siamo dette che lo shopping vero, quello fatto bene, viene fuori solo quando c'è aria di cambiamenti concreti.

Ultimamente (dal giorno x) mi sento particolarmente ispirata in cucina.
C'ho questa voglia di cucinare che mi (ci) sta dando grandi soddisfazioni.

Ho iniziato con i porri gratinati.
Poi i tacos messicani.
Poi la quiche di broccoli pecorino semistagionato e mele.
Oggi la zuppa di patate e porri.
E pure il kebab di manzo e pollo che ha il sapore giusto grazie alle spezie comprate a Istanbul.

La più stupefatta fra tutti è mia mamma, che non crede alle sue orecchie e mi scrive: "avevo perso le speranze nelle tue doti culinarie".

Donna di poca fede.

Grigio fuori, neon dentro, grigio davanti.
L'home page del software è grigia. La mia scrivania è grigia. Il telefono è grigio scuro.

Quando porterò via i miei segni distintivi questa postazione sarà poi completamente grigia.
Via il raccoglitore verde evidenziatore di fogli inutili ma che non ho il coraggio di buttare, via il portapenne rosso fuoco a forma di vaso di fiori, via la targa fucsia col mio nome stampato sopra, via i post-it gialli con gli smileys che mi disegna la compagna di isola.

Questo grigio m'invade, insomma. Apro il sito Lonely Planet e mi informo sulle profilassi sanitarie in destinazioni pescate a caso, apro Google Maps, faccio zoom sul lago Titicaca e mi viene la pelle d'oca perchè dal satellite le acque sono veramente nere e io ho notoriamente il terrore delle acque nere e stagnanti.

Squilla un telefono alla fine del corridoio, poi squilla il mio e sobbalzo sulla sedia. Sarà la ventesima volta oggi che mi sento rivolgere le seguenti parole: ma qui c'è il sole, com'è Milano?

Milano è grigia. Come dovrebbe essere?
In pratica funziona che, mentre il calendario indica che siamo in pieno autunno tendente all'inverno, in tutta Italia il sole splende e le temperature si aggirano intorno ai 20° amabili gradi, e a Milano è grigio.
E' grigio, e fa freddo.
E' grigio, fa freddo, e ho già le nocche delle dita rosse e screpolate.
Ne desumo quindi che questa città sia stata eletta come contenitore degli autunni altrui.
Perchè accendere il neon e crogiolarcisi sotto non avrebbe lo stesso senso se fuori splendesse il sole.

Scandalo delle mamme apprensive, preoccupazione dei padri ragionevoli, Giovanna d'Arco delle impiegate indeterminate ma infelici, eccomi alla fine di un'altra giornata che accorcia i tempi della mia dipartita dziefcacchiana.

Un mese e tre giorni, e pure questa fase della mia vita sarà finita. Per la felicità dei molti che non ne potevano più di sentire le mie lamentele, ma a quanto pare con la soddisfazione anche di qualcun altro. Certe cose saltano fuori solo al momento della letterina d'addio, chissà perchè poi.

Eppure è notizia odierna che ai piani alti nessuno si è stupito del mio annuncio.
La frase ce lo aspettavamo mi ha lasciata interdetta. Sapere, dopo quasi due anni di onorato e frastimmato servizio non ben remunerato, che tutti aspettavano solo il momento in cui mi sarei stancata di ricevere niente in cambio del sudore della fronte mi ha fatto sentire...come dire, male.
Contenta tre volte tanto di aver deciso, ma schifata per questa verità. Per questa inerzia, per il loro stare a guardare.

Siamo matricole, mani che si muovono sui tasti, cervelli che devono lavorare a senso unico.
Non persone che si impegnano, che credono di poter dare un contributo, che però si lamentano e infine se ne vanno, con tacita soddisfazione di chi in fondo pensa che siamo pericolose perchè anime pensanti e possibili sovvertitrici dell'ordine aziendale.

Si esprimono gli arrivisti, che dicono mi dispiace e che per prima cosa vogliono accertarsi che nel nuovo lavoro verrò pagata di più.

...

Se sapessero.
Mi bollerebbero come una matta.
Meglio non dir loro che c'è gente che crede che il lavoro può anche piacere per motivi diversi dai soldi, che lascia un lavoro stabile in favore di un progetto entusiasmante e appena nato con le relative insicurezze, che riuscirà (con immenso sforzo, per la verità) a fare a meno di quella che è ormai riconosciuta come la moneta di scambio per eccellenza nel regno ambrosiano - il ticket restaurant.

Li lascio nel loro mondo fatto di bonus-incentivi-premidiproduzione-tantovincoio.
E continuo a cazzeggiare.

E quel giorno arriva.
L'hai sognato per mesi e mesi, con emozione e speranza.
Non è stato facile guardarsi negli occhi cercando di non far trapelare i tuoi sentimenti più profondi.
Eppure, quando il giorno arriva, in un primo momento sembrano prevalere l'ansia e quella vocina che insinua l'ennesimo sei davvero sicura della tua scelta?

Si, lo voglio.
...

Dottoressa, mi spiace dirglielo, ma do le dimissioni.


[Ahhhhhhhhhhhhhhhh, una giornata volata via in un attimo, in un solo, lungo, sospiro di sollievo]

Io ho un problema.

Mi affeziono troppo velocemente ai posti. Mi basta un dettaglio, un bel momento, una persona interessante. E già mi immagino a vivere anche io in quel luogo. Se poi c'è il mare, un numero infinito di pasticcerie, il rito del the alla mela, un'atmosfera da mille e una notte, il libro giusto al momento giusto...

Mi sono innamorata di Istanbul.
Che poi vuol dire molte altre cose.